lunedì 27 aprile 2009

La Sicilia che scompare di Maria Francesca LoDico

ho trovato questa pubblicazione che richiama joppolo in alcune sue parti... buona lettura. vai nel primo commento....


Titolo originale: The Disappearing Sicily

Tradotto da Elettra Bedon

Montreal, 2007

CANADA

Maria Francesca LoDico è una scrittrice e giornalista di Montreal. Suoi lavori sono stati trasmessi dalla radio CBC. Uno è apparso su diverse pubblicazioni, tra cui Maisonneuve, en Route, Canadian Geographic e National Post, nonché sulle antologie Mamma Mia! Good Italian Girls Talk Back, e Ribsauce: A CD/ Anthology of Words by Women. "Tarantella" è arrivata in finale del concorso per racconti del 2002 di PRISM International. "The Disappearing Sicily" ha vinto il primo premio nel concorso letterario del 2007 di Accenti Magazine. Insegna scrittura creativa al Dawson College e sta attualmente lavorando al suo primo romanzo basato sulla sua infanzia in Sicilia.

1 commento:

enzo carrubba ha detto...

I

Papà mi tiene in braccio, una mano sullo stomaco, il pollice aperto come un punto di pressione che concentra l’abbraccio.

Forse le mie gambe sono intorno alla sua vita, o le mie ginocchia affondano in lui. La foto non lo dice e ogni volta che tengo in braccio mia nipote, Ava, noto le sue gambe da cherubino contro il mio corpo.

Appoggia la fronte contro i miei capelli, un viso la miniatura dell’altro; è di aspetto bello, sembra qualcuno uscito da un film di Visconti o di Antonioni, il suo viso la replica di antichi busti del museo Capitolino di Roma. Un rapido sguardo all’indietro agli uomini di cui sono stata innamorata mi fa pensare con sorpresa: non ho mai conosciuto qualcuno di simile bellezza. Esistono ancora uomini così? In Canada?

I suoi occhi scuri e penetranti, che fanno pensare a un pericolo ignoto, guardano dritto in avanti, mentre il mio sguardo non è rivolto alla macchina fotografica. Le mie labbra sono contratte; il suo sorriso rivela spazi vuoti tra i denti. Avevo dimenticato questi spazi vuoti.

Non ce la faccio a guardare a lungo il suo viso, specialmente quegli occhi, così il mio sguardo vaga verso la sua mano destra. Le dita arrotondate sono molli e rilassate come se fossero senza peso. Le cuticole ombreggiate sembrano sporche come se fosse stato a lavorare nel garage con i fratelli. Ma allora non doveva esserci alcun garage, solo il negozio di fiori. Il dito indice è sospeso sul medio, dove avrebbe dovuto esserci una sigaretta. Il mio braccio sinistro è avvinto goffamente al suo collo, come se stessi per cadere dalle sue braccia.

Ho due cerchietti per orecchini, e un vestito bianco con le maniche a sbuffo. La sua camicia è … blu, marrone? I miei capelli sono corti, riccioli ribelli che si espandono verso i bordi dell’immagine. Il suo viso è ripreso proprio dall’inizio dei capelli e dell’orecchio sinistro, le sue mani sono la base della fotografia.

La foto sgualcita, in bianco e nero, presa a Montreal in una cabina per foto istantanee nel 1969 quando avevo due anni, mi sta in tasca. Non ho immagini precedenti di mio padre e me. Ero appena tornata dalla Sicilia dove avevo passato buona parte dei miei due anni affidata ai nonni paterni, perché mamma e papà erano sopraffatti da quanto c’era da fare per aprire il negozio di fiori, e c’era un altro bambino in arrivo. Ho imparato a parlare in Sicilia, a camminare in Sicilia. Ho imparato ad amare in Sicilia.

Non riconobbi i miei genitori quando fummo riuniti, mi hanno detto. Ho pianto per mesi i miei nonni, mi hanno detto. L’occasione della foto servì da momentanea distrazione, mi hanno detto.

Gli inizi del rapporto con mio padre, così come esiste in forma concreta, qualcosa che posso vedere e toccare adesso, quando così tanto del resto è svanito, sono contenuti in questi pochi centimetri quadrati.

II

Papà è morto di un attacco cardiaco il 3 giugno 1998. Mamma lo trovò nel giardino dietro casa, vicino alle pianticelle di verdura che avevano appena comprato al Mercato Jean Talon.

In quieta solitudine, dopo pranzo se ne era andato vicino al prezzemolo ancora nei vasetti di plastica, gli spuntoni di lattuga dalle foglie rosse arricciate nei contenitori, i pomodorini non ancora maturi, le melanzane non ancora arrotondate. Il basilico, portato al riparo in inverno, cominciava già a profumare in una botte che era stata segata a metà.

Mi piace pensare che l’ultima cosa che vide è stata mamma, attraverso la finestra della cucina, le tendine di pizzo tirate indietro per rivelare il suo viso concentrato sui piatti.

Tre mesi prima del suo sessantesimo compleanno; papà cominciava a passare la direzione del negozio di fiori, uno dei più grandi di Montreal, a mio fratello. Questo ultimo dettaglio – mio padre era un siciliano purosangue che aveva lavorato come un cane porca miseria come un cane sin dall’infanzia – ci ha resi inconsolabili, porca miseria.

I miei ricordi della veglia funebre sono confusi. Ricordo i fiori, cinquantanove orchidee Cattleya spedite per aereo da Vancouver che ricadevano fino ai piedi della cassa da morto, un CARO PAPA’ incorniciato di raso blu e con uno sprazzo di pom pom arancione in alto, tutto intorno gigli rossi, piante tropicali, uccelli del paradiso, calle, zenzero, gladioli, crisantemi. Dal lato opposto della bara, all’altro estremo del salone, una magnifica ghirlanda di duecento rose rosse si innalzava nella stanza. Era difficile respirare tra le centinaia di persone venute a porgere le condoglianze, strette di mano, baci, condoglianze, bbeddamatri, bbedda-matri, condoglianze, segni di croce, abbracciare, agguantare, ghermire, abbrancare – agguantareagguantareagguantare; la mancanza d’aria, il loro fiato, e l’odore dei fiori un miscuglio da far star male. La sorella di papà, zia Carmela, venuta in volo dalla Sicilia, era ipnotizzata da tutte quelle facce del suo passato, così tanti vecchi Giancaxiesi con i quali era cresciuta; intonò un lamento in dialetto siciliano che, otto anni dopo, ancora rieccheggia: u munnu unu paisi, il mondo un paese, il mondo un villaggio, ilmondounvillaggio.

Il mio sguardo passava da papà nella bara aperta alla ghirlanda di rose di un rosso ridondante, e poi indietro: papà, le rose rosse, papà, le rose rosse, la ghirlanda, il mio cuore.

In mezzo alla cantilena del Rosario coglievo delle storie, storie senza fine in cantilena, mormorii, lamenti, gemiti, sospiri, come un far parlare il defunto.

“Non riuscivo a fargli usare il portacenere” diceva la figlia di Sebastiano, Sandra. Mio padre prendeva il suo espresso e un cornetto all’albicocca ogni mattina nella loro Pasticceria San Marco, in fondo all’isolato dov’è il negozio di fiori San Remo, sulla Jean Talon Est. Sebastiano era morto due anni prima.

“Era là tutte le mattine, nervoso, una sigaretta dopo l’altra, e non riuscivo a fargli usare il portacenere. Così lasciava tracce del suo passaggio ovunque”, diceva Sandra, che ha la mia età. Ci sono bruciature su tutto il bancone dove “aveva dimenticato la sigaretta ancora accesa”.

L’uomo di queste storie non mi era familiare. C’era stata una tale tensione tra noi, non potevamo parlare. Con quest’altro uomo avrei potuto parlare – un uomo cui piaceva la musica reggae e di Haiti (trovammo le cassette nella sua vecchia Buick) e che qualche volta andava al museo o a vedere i filmi americani da solo, un uomo che negli affari era diventato amico di gente non italiana mentre altri, compresi i suoi fratelli, erano più legati alle radici insulari – c’era stato Williams, l’uomo di colore che gli aveva dato quelle cassette, e molti ebrei, che lo avevano aiutato a cominciare su Queen Mary, specialmente Sam, un grossista, quello che aveva mandato la ghirlanda e aveva fatto arrivare in volo le orchidee Cattleya. Era l’uomo che, da ragazzino, era scappato dal seminario di Sciacca e aveva camminato fino a casa a Ioppolo Giancaxio (Agrigento); l’uomo la cui delicata arte floreale stonava con la sua generale rudezza; l’uomo che era essenzialmente un solitario e la cui indipendenza aveva rappresentato una ferita profonda nella sua vita familiare.

Mio fratello Angelo racconta questa storia: “Qualche giorno prima della festa della mamma, in una delle settimane più piene dell’anno, potevamo arricchirci o essere rovinati, migliaia di fiori in magazzino … il frigorifero principale si rompe! Madonna, che pasticcio, mamma si comporta in modo irrazionale, ‘O Diò, perderemo tutto’. Papà urla con tutti. Ben, che si occupa dei frigoriferi, è in vacanza. Papà, disperato, manda a chiamare qualcuno che è sulle Pagine gialle.

‘C’è un grosso problema con il compressore’, dice il tizio. Posso ripararlo, sostituire questo pezzetto qui, ma costerà caro. Paga in contanti e …’

‘Pensa a ripararlo’, dice papà.

Una settimana dopo il frigorifero smette di nuovo di funzionare. Sapete già quello che succede: mamma si comporta in modo irrazionale, papà urla a tutti … Ben aggiusta il frigorifero, niente di grave, un tubicino del sistema di scarico si era allentato. Papà gli chiede di guardare il compressore. ‘Non ci vedo niente di diverso. Probabilmente l’altra volta era la stessa cosa, questo tubicino’. Ben dovrebbe saperlo, è lui che ha installato l’originale.

Papà diventa estremamente calmo, sapete che quando diventava così calmo faceva quasi paura?

Qualche settimana dopo gli viene la luna. Allora chiama il tizio delle Pagine gialle. ‘Prendi ancora contanti?’

Naturalmente il tizio viene subito. Papà lo porta nella stanza d’ingresso al piano di sotto, chiude la porta, dice con grande calma: ‘L’ultima volta mi hai fregato, mi hai fregato sul serio. Voglio che pensi a quello che mi hai fatto’.

Papà lo chiude dentro, aspetta esattamente per sessanta minuti. Ritorna nella stanza, dà un telefono al tizio delle Pagine gialle: ‘puoi fare una telefonata’. Il tizio è terrorizzato.

Papà appariva sempre un po’ disordinato, con i peli del naso che mamma cercava di tagliare appena possibile. Le sue dita erano macchiate e sfregiate in permanenza per aver maneggiato fiori e piante per oltre trent’anni.

Il tizio fa la telefonata e papà lo chiude dentro di nuovo. Venti minuti dopo appare un altro tizio con una busta piena di biglietti di banca.

Papà non ha mai alzato un dito su nessuno, ma ha avuto indietro i suoi soldi”.

Un tale uomo di mondo, un vero uomo, in completo contrasto con l’altro uomo che avevo conosciuto, il cui pianto lamentoso per la morte della madre avevo risentito come una sofferenza costante …

III

Era il 1995, in Sicilia. Mio padre e io eravamo entrati in ospedale con suo fratello Carmelo, un dottore, il solo professionista della famiglia. La nonna era collegata a diversi macchinari. Stavamo dietro un divisorio di vetro ed era come se l’Atlantico ci separasse ancora. Mio padre, il primogenito di mia nonna, era stato il primo dei suoi cinque figli ad andarsene, salpando da Napoli a quattordici anni per raggiungere il padre che aveva appena conosciuto e che lavorava in Canada.

Non potevo guardarla direttamente in viso. Vedevo tubi, ciuffi di capelli, biancheria, macchinari. Ma non potevo guardarla in viso, l’Atlantico era tra noi; mio padre allungò una mano per toccarle il viso, ma il vetro rifletteva le sue dita sui nostri volti.

Lei morì qualche ora dopo. Aveva settantadue anni. Ero arrivata in Sicilia in volo, con mio padre e i suoi fratelli, appena zio Carmelo aveva chiamato per dirci dell’emorragia cerebrale.

Ci spinsero via in fretta, in fretta, in una stanza senz’aria con il pavimento di cemento. Lungo una parete un lavello, strumenti chirurgici. In mezzo alla stanza un tavolo di marmo e un lavandino insanguinato.

Il dottore e l’infermiera sistemarono il corpo della nonna sul marmo. Il nonno, mio padre, e gli zii distolsero lo sguardo. Il dottore controllò le bende sul retro della testa della nonna. Zia Carmela cominciò a lamentarsi; baciò la nonna, le accarezzò il viso, le braccia, le ginocchia. Il nonno stava dietro la testa della nonna, la baciò sulla fronte, sulle tempie, sulle guance, sulle labbra, le accarezzò le guance. Zio Onofrio stava alla sua sinistra, le baciò la mano, le lacrime gli cadevano sulle dita. Zio Giuseppe era alla sua destra. Zia Carmela cercava di stirarle il vestito con le mani, e continuava, e continuava, e continuava. Mio padre le accarezzava le gambe. Io stavo ai suoi piedi, vicino al lavandino sporco.

Zio Carmelo parlò con il dottore vicino alla porta a voce bassa, piano, piano. Due addetti alla sicurezza portarono nella stanza una bara dove gli uomini misero delicatamente la nonna. Zia Carmela coprì il corpo con un bianco lenzuolo di lino, ricamato, stirato perfettamente. L’addetto chiuse la bara e noi portammo via la nonna da Agrigento a casa nostra, a Ioppolo Giancaxio, caro paese.

Gli abitanti del villaggio vennero a rendere omaggio. La cassa da morto era in mezzo al soggiorno, scoperta. Fiori coprivano il corpo della nonna dalla vita in giù. Aveva una corona del rosario tra le mani, la croce riposava sul ricamo del lenzuolo che le arrivava al petto. Le persiane chiudevano fuori il resto del mondo. La famiglia era in piedi intorno alla bara, dalla parte della testa. Gli ospiti stringevano la mano a tutti noi e baciavano la nonna sulla fronte. Sembrava che tutto Giancaxio fosse lì. Il sacerdote era in piedi dalla parte opposta; noi pregavamo.

Il nonno accarezzava il viso della nonna, le tempie, le guance. Gridava: “Cinquantotto anni, cinquantotto anni da quando ci siamo sposati! Avevi quindici anni, una ragazza di quindici anni. Un mal di testa, hai detto di avere mal di testa. Hai detto che era solo un mal di testa! Torna indietro, torna indietro, torna indietro!” Sembrava uno di quei vecchi uomini avvizziti della serie di fotografie di Giacomo Pirozzi La Sicilia che scompare. Rigide e granulose immagini in bianco e nero di donne e uomini anziani, affaticati, abbandonati, vestiti a lutto, alcuni sorridono rivelando larghi spazi tra i denti cariati, donne incurvate con una peluria sul labbro, i fazzoletti neri legati stretti sotto il mento, uomini rugosi con la coppola in testa e la pipa, a cavallo dei loro muli.

Il flusso dell’andirivieni era continuo, uno scambio costante di partecipanti al nostro dolore diventato pubblico. Zia Carmela guidò lontano dalla bara il nonno che singhiozzava, gli sistemò il berretto di lana sulla testa calva.

Mio padre si lamentava: “Non avrei mai dovuto lasciarti, dovevo tornare qui quando era ancora possibile. Non avrei mai dovuto lasciarti, mamma. Non ti ho neanche conosciuta”. L’accarezzava teneramente, piangendo come un bambino.

IV

Nel 2006 vendemmo la casa di mattoni a due piani che papà aveva costruito. E nacque mia nipote Ava.

Più la casa era vuota, più sentivo la presenza di mio padre. La camera matrimoniale rimase immutata, salvo per un altarino di ricordi. Mamma aveva dormito al primo piano da quando papà era morto. Mentre mettevo via le cose della camera da letto mi ricordai di quello che lei mi aveva detto il giorno del funerale: “Quando ci siamo sposati eravamo così giovani. Eravamo cresciuti quasi senza padre. Così ciascuno di noi si aspettava che l’altro fosse l’adulto”.

L’arrivo di Ava in agosto ci distrasse dal trasloco. Nata in buona salute finì nel reparto di cure intensive dell’ospedale dei bambini pochi giorni dopo, per un eccesso di sodio nel sangue e per una grave disidratazione. A dicembre sorrideva tra le mie braccia mentre il sacerdote le versava l’acqua sulla testa e la battezzava. Io ero la sola madrina di Ava – Ava dal temperamento tranquillo, Ava dai capelli biondi e dagli occhi azzurri malgrado le sue radici siciliane e filippine (mia cognata è belga di origine filippina).

Dopo la cerimonia la mia famiglia si riunì in un ristorante greco. Ava se ne stava tranquilla tra le mie braccia, la calzamaglia di cotone increspato tesa sul sederino. Mio fratello e sua moglie, Geraldine, giravano tra gli ospiti e mi domandavo quando sarebbe stato il momento giusto per dar loro il mio regalo: un’unica perla, accompagnata da una citazione di Fellini su un biglietto: Ogni arte è un’auto-biografia. La perla è l’autobiografia dell’ostrica. Avevo pensato di dare ad Ava un’unica perla ogni anno fino al suo diciottesimo compleanno, quando avrebbe potuto farne un gioiello, o una composizione artistica, o lasciarle sciolte.

Notavo tracce della fisionomia di papà nei miei zii, e di me nei loro figli, specialmente nei miei cugini dai capelli ricci Angelo, Francine, Franchina, Joey e Carmelina. Non li vedevo spesso: io ero la più vecchia e la meno tradizionale – nubile, vivevo da sola in città, artista, con pochi amici italiani. Il pensiero che avessimo così poco in comune, oltre alla famiglia, mi rattristava.

Nascosta sotto il tavolo c’era una capsula del tempo che avevo preparato per Ava, una scatola di ricordi (oggetti, foto, ricordini, lettere) che mi ero fatta dare da ciascuno nella stanza perché lei l’aprisse quando avesse compiuto sedici anni. Avevo chiesto alla mamma di darmi una lettera che parlasse di papà, così Ava avrebbe potuto conoscerlo. Qualche giorno prima mamma mi aveva chiamato in ufficio, al McGill-Queen’s University Press. Era un momento febbrile, perché stavo lasciando il mio lavoro alla fine dell’anno per scrivere il mio primo libro. Non lo avevo ancora detto in famiglia.

“Fra’, ho finito. Ho messo tutto in una busta, il medaglione che tuo padre mi ha dato quando eravamo sposini, fotografie, la lettera. Sono sette pagine …”. Cominciò a leggere. “Mamma, non adesso, non posso …”. Lei non tenne conto della mia supplica e io guardai, sfiduciata, la lista infinita delle “cose da fare” sulla mia scrivania, tra la pila di documenti e gli schedari. Stavo per tagliar corto quando qualcosa nel suo tono di voce mi sorprese: era realistica, non si sforzava di fare un ritratto esclusivamente positivo, pur non dicendo niente di negativo. Presto mi ritrovai a seguire il suo racconto della vita e del carattere di mio padre.

Non ero preparata alla sua conclusione: “Ava, tesoro, non ci sono parole che possano far giustizia a tuo nonno. Se vuoi sapere com’era guarda la tua madrina: lei ha i suoi occhi, la sua intelligenza, la sua creatività. Ed è segreta come lui, sta sempre nascondendo una parte di se stessa… ma penso che con te nasconderà poco. Va dalla tua madrina Francesca, e conoscerai tuo nonno Gaetano.”

Faceva caldo nel ristorante, il profumo dei polipi alla griglia era come un lieve rumore di risacca che chiamava i ricordi. Affondai il viso nel collo di Ava, la coprii di baci leggeri aspirando il suo odore; il mescolarsi dei profumi e del dialetto siciliano parlato dalla mia famiglia mi portarono indietro, indietro, indietro. La mia testa era colma delle immagini del libro che stavo scrivendo, I giganti di Agrigento: una storia magico-realistica situata in un panorama mediterraneo di rocce vulcaniche e miniere di sale, fiori di mandorlo, arance sanguigne, fichi d’India e pecore, un vecchio asino saggio che sorveglia pupi che si impennano, una tarantola che ci morde tutti portandoci a un’isterica tarantella, e giganti che governano tra rovine antiche …

Titolo originale: The Disappearing Sicily

Tradotto da Elettra Bedon

Montreal, 2007

CANADA

Maria Francesca LoDico è una scrittrice e giornalista di Montreal. Suoi lavori sono stati trasmessi dalla radio CBC. Uno è apparso su diverse pubblicazioni, tra cui Maisonneuve, en Route, Canadian Geographic e National Post, nonché sulle antologie Mamma Mia! Good Italian Girls Talk Back, e Ribsauce: A CD/ Anthology of Words by Women. "Tarantella" è arrivata in finale del concorso per racconti del 2002 di PRISM International. "The Disappearing Sicily" ha vinto il primo premio nel concorso letterario del 2007 di Accenti Magazine. Insegna scrittura creativa al Dawson College e sta attualmente lavorando al suo primo romanzo basato sulla sua infanzia in Sicilia.